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Sandrelli, Betti, Bertolucci: le Donne di Gorni inaugurate dal cast di Novecento
Storia dimenticata della scultura traslocata all’imbocco di corso Umberto I

gorni

Da sinistra Cesare Zavattini, Stefania Sandrelli, Giuseppe Gorni,
Laura Betti e il Sindaco di Mantova Gianni Usvardi, 12 ottobre 1974

 

Il “Monumento alla Donna” di Giuseppe Gorni traslocato in piazza Cavallotti è diventato il fuoco prospettico che corso Umberto I e corso Vittorio Emanuele cercavano. Il bronzo bruno-verde col suo piedistallo in marmo bianco, trasferito dall’aiuola spartitraffico della magnolia all’imbocco di corso Libertà, ora è quasi al cospetto del colonnato del Teatro Sociale.

Un dialogo fra vuoti e pieni, convessità e cavità, superfici trattate come cortecce di gelso, corpi liberati, anime contenute. La statua è il compendio del mondo espressivo del grande artista di Nuvolato di Quistello, posata accanto alla magnolia (che allora era nana) il 12 ottobre 1974, l’anno prima della morte di Gorni.  Un sabato sera. 

Come su un set

“Monumento alla Donna”, “Donne”, “Confidenze”. Molti i titoli che nel tempo si sono alternati o sovrapposti alle due figure connesse le quali, adesso, pretendono una targa che le spieghi. Non soltanto con nome dell’opera, autore e data. Ma con la precisa storia inaugurale, straordinaria, cinematografica. Che va cavata dalla dimenticanza, perché è un documento di storia.

Ore 21. Pioveva, ma il pubblico era straripante. Buio. Dietro, come fondale, c’era una stramoderna scritta pubblicitaria al neon che occhieggiava dalla balconata del Palazzo delle Rose. Secondo il protocollo cronistico la foto in più nero che bianco di Quinto Sbarberi fissa l’attimo dello scoprimento della scultura. A far scivolar via il velo da una parte Stefania Sandrelli e dall’altra Laura Betti. Due donne del grande cinema italiano impegnate nel cast dell’epico-politico “Novecento”, girato tra Parma e Mantova. La prima interpretava Anita Furlan moglie del contadino progressista Olmo Dalcò (Gérard Depardieu), la seconda impersonava Regina, donna del fascistissimo Attila (Donald Sutherland). Colossal in due parti, per un totale di 5 ore e 20 minuti.

Le attrici avevano risposto volentieri all’invito dell’amministrazione comunale. Loro, e non soltanto. Attorno alla scultura – fra una folla di donne - c’erano anche il regista Bernardo Bertolucci con il collega sceneggiatore e poeta Cesare Zavattini, mantovan-reggiano di Luzzara. Tutti abbracciati all’ottantunenne Giuseppe Gorni.

Ecco perché una tabella di spiegazione è necessaria: il monumento che mitizza e sublima nel bronzo l’etica femminile della civiltà contadina compenetra l’epopea narrata nel film. È lo stesso sentire di Gorni che canta sottovoce nel bronzo, nell’argilla, nella pittura e nelle incisioni. I suoi sono eserciti solidi e spirituali di uomini, donne, animali così legati alla terra e accomunati da un’eguale condizione da trasfigurarsi in zolle, tronchi, frasche, covoni.

Città solidale

Poi, quella scultura, ora diventata centrale, disvela una vicenda preziosa nella storia sociale e solidale della città. Fu Rodolfo Stranieri, gallerista, presidente del Gruppo amici dell’arte della Galleria San Domenico, a chiedere a Gorni di riprodurre l’opera “Confidenze” (bozzetto ora esposto nel Museo di Nuvolato) in un formato decisamente più grande da installare in Corso Libertà.  Il cronista della Gazzetta che descriveva l’impresa ne aveva colto il valore: “Un’opera viva che darà più nostrano sapore a questa strada piuttosto anonima per lo stile standardizzato, che è lo stesso di tante altre città ‘rinnovate’”.

L’iniziativa aveva preso corpo durante la mostra antologica di Gorni allestita nell’autunno 1972 alla Casa del Mantegna a cura di Renzo Margonari, e sarebbe stata finanziata dalla vendita di multipli dell’originale e con una colletta pubblica. L’artista non voleva una lira. Era la fusione che costava, eccome. Lo spiegò il cronista annunciando il progetto che vide in prima linea il sindaco Gianni Usvardi, quindi il Comune, Aldo Signoretti, e diversi istituti di credito. Il giornalista: “I costi subiscono continui aggiornamenti provocati dallo slittamento della lira”. Erano tempi di svalutazione, austerity, crisi.

Cittadino e statue

Con il successo dell’impresa, l’intuizione di Stranieri procedette con altri collocamenti di sculture en plein air. La quali non sono complementi d’arredo urbano (lampioni o panchine), ma espressioni vive d’arte e artisti nella carne della città, vale a dire nella nostra vita quotidiana. 

Il progetto immaginava una Mantova popolata da cittadini e memorie di cittadini, anche in maniera anticlassica, non con i busti mesti dei benemeriti defunti. Basti pensare al macheronico “Merlin Cocai” di Albano Seguri che non poco assomiglia all’indimenticato ispiratore Mario Cattafesta, giornalista intellettuale della Gazzetta, oppure alla “Figura” di Aldo Bergonzoni, entrambi nei giardini del Lungorio, fra i roseti, sotto la Torre di San Domenico. Sempre qui è stata collocata la “Conversazione”, ancora di Giuseppe Gorni.

Il 3 maggio dello stesso anno era stato inaugurato a San Rocco di Quistello il monumento alla Prima Lega Contadina d’Italia (niente a che fare col leghismo bossiano o salviniano): un contadino ossuto e baffuto in posa statica per la storia. Era il lascito della civiltà dell’ormai tramontata civiltà agraria con le sue miserie e battaglie, da “La boje!” alla trasformazione- migrazione dei lavoratori della terra in metalmeccanici cittadini a Mantova o nel triangolo industriale.

Cosicché il “Monumento alla Donna” di piazza Cavallotti narra la stessa evoluzione “demascolinizzata”, bensì con sottana, fazzoletto in testa, superfici curvilinee della maternità, dunque al femminile. Mater Terræ.

La porta e il Rio

Dove sino a ieri c’era una sorta di intricato ingombrante stallo per bici e moto, e prima s’ergeva la Porta Leona con i due fornici d’origine medievale, adesso l’alfabeto dei simboli segue un nuovo palinsesto. Firmata dagli architetti Stefano Gorni Silvestrini, Diego Cisi, Jacopo Rettondini e Francesca Brescia con Oreste Sanese e Mario Ardillo, la riqualificazione di piazza Cavallotti recupera diverse evocazioni, rappresentazioni e presenze perdute, oltre la rilevanza del “Monumento alla Donna”. Sulla nuova pavimentazione fra il Sociale e il condominio Leona è prevista la posa di una lastra profilata in ottone che indica il pilastro centrale. Di questo, durante gli scavi, sarebbe stata individuata traccia delle fondamenta: un conglomerato quadrangolare di ciottoli e malta. A riprodurre la Porta demolita nel 1797 vi è comunque uno dei bassorilievi affissi sui lati dello stesso edificio, firmato nel 1956 da Vindizio Nodari Pesenti. 

Sugli altri fronti i pannelli raffigurano il Rio quando scorreva sul retro delle abitazioni, prima del tombamento, della costruzione di viale Libertà con gli edifici “standardizzati” che i polemisti anni Cinquanta definirono in dialetto “Via di alt e bas”. 

Per contestualizzare il luogo, la Porta, la storia, ripeto, basterebbe un cartello con la ricostruzione grafica e una svelta spiegazione. Così ci si orienta nella storia.

Gli architetti nel passaggio ciclopedonale che attraversa l’aiuola dov’era la scultura di Gorni, vicino la magnolia che sé fatta grande e per le feste diventa albero di Natale, hanno posato una caditoia listata da pietra rossa dove è incisa l’indicazione “Il Rio”. Il fiume interno che è stato intubato e seppellito scorre infatti qui sotto. Ci dicono che è prevista un’illuminazione per vederlo. Ma per sentirlo v’è il rischio di intercettare, concentrato, l’odore di palude (“freschìn”) che ogni tanto emanano i tratti scoperti.  Prendetelo così, come un barometro.

Tornare in strada

Da spopolato che era il raccordo fra piazza Cavallotti e corso Umberto I potrebbe diventare un incrocio da vivere, in continuità con corso Vittorio Emanuele. Pezzi di città che – qui sta il bello – sono stati separati e resi distanti non dal Rio o dalle antiche Porte di difesa, ma dallo scorrimento degli autoveicoli. Da ciò i marciapiedi che nel Novecento diventarono camminamenti di salvezza, spesso larghi quanto le spalle di una persona, eccedendo nel credere alla “misura d’uomo”. Il fatto che la statua delle Donne che chiacchierano, vedono, ci guardano, decidono, prenda coraggiosamente posto nel mezzo di una strada segna il tempo nuovo.

Racconto di Stefano Scansani pubblicato sulla Gazzetta di Mantova l’11 agosto 2025